
La brusca caduta del PIL dell’Area Euro nel primo trimestre e la probabilità di un crollo ancor più drastico nel secondo trimestre sono in linea con la previsione di una contrazione intorno al 10% per l’economia dell’Eurozona quest’anno, con rischi di una flessione ancora maggiore. Tali rischi derivano in parte dai possibili effetti sull’economia conseguenti a un’elevata disoccupazione, a fallimenti aziendali, danni agli spiriti animali e cambiamenti di comportamento. Recenti evidenze aneddotiche confermano che tali rischi sono del tutto reali. Un’importante compagnia aerea ha annunciato che potrebbe dovere lasciare a casa un terzo dei suoi dipendenti e studi indicano che tre quarti dei bar e ristoranti britannici rischiano di fallire. Per Italia e Spagna, il turismo costituisce rispettivamente, il 12% e il 14% circa del PIL, secondo i dati del World Travel and Tourism Council, ed è difficile prevedere che queste attività possano riprendere presto.
Inoltre, le autorità danesi la scorsa settimana hanno segnalato che l’allentamento precoce del lockdown nel paese potrebbe comportare una nuova accelerazione dei contagi del Coronavirus.
Per numerosi modelli di business probabilmente non si potrà tornare alla normalità per molto tempo (e in qualche caso mai più) e ciò evidenzia la necessità di un sostegno dei governi che sia non solo poderoso ma anche di lungo periodo e più ampio, e dunque comprenda, ad esempio, maggiori aiuti a fondo perduto e iniezioni di capitali in settori che sono in difficoltà. Le Banche Centrali, nel frattempo, debbono coordinare la propria azione con le decisioni dei governi mantenendo ancorati i bilanci pubblici dei paesi.
Per scongiurare il rischio che la crisi frantumi il tessuto sociale nei diversi paesi, le autorità debbono agire con decisione e di concerto.
Europa: tempi straordinari esigono risposte straordinarie
Le analisi indicano che per raggiungere la cifra economicamente efficace di almeno 1.000 miliardi di Euro, il tanto atteso Recovery Fund dell’Unione Europea dovrebbe prevedere la maggior parte del sostegno ai paesi sotto forma di prestiti anziché di contributi a fondo perduto. In caso contrario, la Commissione Europea rischia probabilmente di non essere in grado di emettere molti titoli di debito sui mercati pubblici senza perdere il suo rating Tripla A. Offrire maggiori risorse a fondo perduto sarebbe in teoria possibile solo se gli stati membri decidessero di aumentare il contributo al bilancio europeo di oltre l’1% del PIL, e per un periodo superiore ai due o tre anni - che è improbabile. L’attuale proposta di Recovery Fund ha già abbastanza ostacoli da superare.

Con contributi a fondo perduto verosimilmente non superiori allo 0,5% del PIL dell’Area Euro, la parte del leone del sostegno sarebbe sotto forma di prestiti agli stati membri. Tali prestiti sarebbero utili ai margini se concessi con scadenze molto lunghe, a tassi molto bassi, e con poche condizioni o privi del tutto di condizioni. Tuttavia trovare un accordo sulle condizioni potrebbe non essere agevole visti i recenti commenti di alcuni esponenti pubblici nord-europei. L’onere della crisi economica conseguente alla pandemia probabilmente resterà sulle spalle dei governi nazionali e della Banca Centrale Europea (BCE).
A tal riguardo, la BCE non ha concesso molto nella sua riunione del 30 aprile, a parte condizioni più generose per le sue operazioni di fornitura di liquidità LTRO (operazioni di rifinanziamento a più lungo termine) per le banche. La banca centrale europea ha tenuto a sottolineare che il suo programma di acquisti di titoli per l’emergenza pandemica, il cosiddetto PEPP, da 750 miliardi di Euro, può essere incrementato e aggiustato per quanto necessario a sostenere l’economia, ma si è astenuta dal fornire un più chiaro impegno incondizionato a contenere gli spread dei titoli sovrani.
Le sue azioni ne confermano il messaggio: gli acquisti di titoli operati dalla BCE sono stati immediati e hanno riguardato soprattutto i titoli dei paesi periferici ma non sono stati sufficienti a impedire il protrarsi della volatilità degli spread.
Un altro segnale di allerta: il declassamento di rating dell’Italia
Fitch ha inaspettatamente declassato il debito sovrano dell’Italia a ‘BBB–‘ (con outlook stabile), anticipando la decisione rispetto al suo calendario di riesame del rating. Fitch ha dichiarato che il debito dell’Italia previsto salire al 156% del PIL nel 2020 è ben superiore alla “attuale media del 36% del PIL per i titoli con rating BBB”.
Osserviamo, a titolo di confronto, che Fitch ha assegnato la ‘A’ al Giappone nel suo rating, quando il paese aveva un debito superiore al 230% del PIL nel 2019 e in crescita. La differenza probabilmente si spiega con il sostegno monetario incondizionato della banca centrale nipponica ai titoli di Stato di quel paese (i JGB) e con il fatto che il mercato dei JGB è prevalentemente nazionale.
La presenza di chiari ancoraggi monetari spiega anche il giudizio di Fitch sui titoli sovrani degli Stati Uniti e del Regno Unito, ai quali ha assegnato rispettivamente rating ‘AAA’ e ‘AA-‘ nonostante i debiti intorno rispettivamente al 110% e all’85% del PIL nel 2019, e in rapido aumento futuro. Ecco quanto conta poter finanziare il proprio debito – ed è questo che ancora separa molta dell’Europa.
Urge una solida collaborazione fiscale/monetaria. Riteniamo che le autorità in Europa alla fine faranno ciò che è necessario, ma occorre agire in fretta: quanto più tempo ci vorrà per giungere a una convincente risposta politica tanto maggiore sarà il rischio di danni economici e sociali e tanto maggiore il rischio di perdere il controllo. L’Europa è all’ora della verità.
Contributo a cura di
Nicola Mai - Responsabile della ricerca sul credito sovrano in Europa